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Ci sono divi che non possono invecchiare e muoiono giovani. Basta pensare alla cosiddetta “maledizione dei 27 anni” che prende il nome dall'età in cui si sono spente stelle della musica come Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain, Amy Winehouse e tante altre, o al terribile schianto che nel '55 si porta via il 24enne James Dean. In tutti questi casi la morte precoce è l'ultimo atto di vite spremute all'eccesso.
Marilyn è una storia a parte. Per quanto tragica, la sua fine a 36 anni non è l'epilogo di un'esistenza inquieta (che pure ha avuto), ma l'evento che rende la sua immagine eternamente giovane: un'icona di sensualità ingenua penetrata nella memoria visiva di tutti e per questo immortale.
Lo intuisce per primo Andy Warhol: proprio nel '62 comincia ad utilizzare la tecnica della serigrafia, e la scomparsa della diva nell'agosto di quell'anno lo induce a riprodurne il volto, tratto da una foto di scena del film Niagara, con infinite variazioni cromatiche (alcune esposte nell'agosto di quest'anno a Rimini).
La testa biondo platino è onnipresente, si separa dal corpo e dalla sua esistenza terrena, diviene uno dei simboli della Pop art, arte della gente comune; icona a disposizione di tutti, che vive al di là della Marilyn reale, come dice, un po' sprezzante, Warhol stesso: “Per me la Monroe non è altro che una persona fra tante altre. E riguardo alla questione se dipingere l’attrice in toni di colore così vivaci rappresenti un atto simbolico, posso soltanto rispondere che a me interessava la bellezza: e la Monroe è bella”.
Possiamo aggiungere: Marilyn è un'incarnazione della bellezza senza tempo. La pensa così Bertrand Lorquin, esperto d'arte, che nel catalogo della mostra con l'ultimo servizio fotografico della diva, “The last sitting”, con gli scatti di Bern Stern, da poco conclusasi al Forte di Bard, ha evocato i nudi di Botticelli, Rubens, Velazquez, Goya, Ingres e Manet, per attribuire alle plastiche curve della Monroe un posto nella storia dell’arte”.
La bellezza deve mostrarsi, mettersi a disposizione degli occhi della gente, ha bisogno dello sguardo del pubblico; e nel Novecento Hollywood fabbrica le immagini in cui ognuno può proiettare i propri desideri e vederli prendere forma. Marilyn è perfetta per questo meccanismo, come nessun'altra è mai stata o sarà dopo di lei, anche se, paradossalmente, ha il terrore del palcoscenico.
Per entrare nel mondo del cinema si schiarisce i capelli e si ritocca leggermente il viso, accentuando la morbidezza dei tratti. Il ruolo iniziale non può che essere quello stereotipato e diffuso della dumb blond, la bionda svampita: il suo modo di interpretarlo diventa unico, con quel mix di sensualità e dolcezza che raggiunge l'apice con “Sugar Kane”, la cantante capace di far girare la testa a Tony Curtis in A qualcuno piace caldo.
Ma sin dai primi successi quella parte le sta troppo stretta. Sogna personaggi drammatici, che le diano la possibilità di esprimere le proprie capacità di recitazione. La sua evoluzione invece non consiste nel diventare una grande interprete, ma qualcosa di più: supera lo stereotipo per trasformarsi in un simbolo incarnato.
Sulla scena è in grado di impadronirsi dello sguardo maschile. Il critico Laura Mulvey, nell'analizzare una celebre sequenza di ballo all'inizio de Gli uomini preferiscono le bionde, coglie l'essenza della sua performance: nel primo piano, benché in movimento, riesce a essere perfettamente in posa, come immortalata da un obiettivo fotografico. Questa capacità di esporre la propria bellezza con tale studiata naturalezza resta inimitabile: lo spettatore sogna che Marilyn sia lì solo per lui, dolce e sensuale allo stesso tempo.
Possiamo cogliere questa sensazione nello sguardo di Tom Ewell, rapito dal sollevarsi della gonna dell'attrice nella scena celeberrima di Quando la moglie è in vacanza. Possiamo immaginarla anche in John F. Kennedy, quando gli viene dedicata un'indimenticabile Happy Birthday, Mister President cantata con voce ammiccante in un abito color carne.
Anche Hugh Hefner, padre di Playboy, intuisce da subito l'unicità del suo sex-appeal e acquista i diritti di una foto senza veli dell'attrice, non ancora famosa, per la primissima copia della sua rivista. Poche parole le bastano per evocare intense fantasie: “La notte mi vesto solo di due gocce di Chanel numero 5”.
Questa è Marilyn, immortale al di là della sua vita reale. Sex-symbol nel senso più pieno del termine e consapevole di esserlo: “La gente non mi vede! Vede solo i suoi pensieri più reconditi e li sublima attraverso di me, presumendo che io ne sia l’incarnazione”.
Tell the stars who are Telestar
A fine anno Nerospinto ha avuto modo di intervistare i Telestar, la band emergente che nel 2008 ha chiuso il 'Cornetto Freemusic Audition', aperto un concerto di Zucchero e ottenuto la vittoria all’Heineken Jammin’ Festival del 2011, e Emilie Fouilloux, in arte Mademoiselle Em, giovane dj parigina resident a Le Germain, al Montana e al No Comment di Parigi, collaboratrice di Simon Reziem e Gilbert Costes.
Nonostante l’eterogeneità delle sue componenti Telestar appare come un gruppo compatto, personalità non convenzionali quelle di Remo Morchi, Edoardo Bocini, Marco Tesi e Francesco Baiera; lo si capisce al primo sguardo: look e gestualità totalmente differenti. Band made in Italy, genere indie/pop/rock, nel 2011 pubblicano il primo videoclip del singolo Il profumo è sempre il solito: sobrio, istantaneo, emotivo. L’omonimo album d’esordio arriva dopo un’esperienza musicale decennale, nove sono i brani scelti <<ma ce n’erano tanti altri, abbiamo dovuto fare una scrematura>> appartengono quasi tutti al passato, all’età acerba, dicono, eppure i motivi hanno tanto di attuale, non si distaccano molto dall’idea di musica cantautorale "grass roots" che si ha oggi in Italia; se pensiamo a Dente o agli Amour Fou, potremmo allora azzardare a dire che in parte sono stati precursori e che se finora si sono mossi per vie trasversali, dopo questo disco, li vedremo guadagnare rilievo sulla scena nazionale. Ecco allora un’intervista per chi ancora non li conosce.
Perché il nome Telestar?
Edoardo (voce): Non ha un perché, lo trovammo scritto sul brano di un mood degli anni 70 e ci sorprese perché non era ancora stato usato. Abbastanza nerd, è un po’ intrigante, ce l’abbiamo da sempre, quasi dieci anni.
Cos’è la musica per voi?
Remo (chitarra): Per me la musica è qualcosa di primitivo, che mi accende, come mangiare, bere, dormire, per me è tutto. Se potessimo vivere di musica faremmo quello …
Marco (batteria): Quello che ho sempre fatto fin da bambino, è una parte di me, non potrei pensarmi senza il mio strumento, la mia musica, per cui non ti posso dire che è tutto, perché non è tutto, però è una parte molto importante della mia vita.
Edoardo: Per noi la musica è un hobby, ci ritroviamo a suonare dopo il lavoro da più di dieci anni e ce la teniamo come grande passione. La viviamo come un grandissimo impegno, perché tutti lavoriamo, abbiamo vite parallele, quindi diventa sempre più una sfida mantenerla così, per ora ce la stiamo facendo, nonostante viviamo in posti diversi. Abbiamo voluto buttar fuori questo disco perché ce l’avevamo addosso da troppo tempo; ci sono infatti dei brani che suonano momenti diversi da quello che viviamo adesso, però non potevamo non pubblicarlo: è un po’ un regalo che dovevamo a noi stessi.
Cosa ne pensate della musica oggi, è più semplice o difficile lavorare nel mondo della digitalizzazione?
Remo: Io credo che la differenza sostanziale fra prima dagli 90 ed oggi sia la capacità che ha avuto il computer di mettersi nel mezzo tra il musicista e il suo strumento, avvicinandolo per certi versi alla conclusione del progetto musicale, però d’altro canto allontantanandolo dalla musica, perché ormai non si fanno più delle mani come quelle dei musicisti di una volta; si sbaglia e si corregge, e l’errore può diventare anche qualcosa di comunicativo; io non posso neanche giudicare perché ne sono dentro, lo faccio e nel frattempo mi sono cambiati i parametri.
Marco: Sicuramente è più facile avere un contatto col pubblico, è più alla portata di tutti, però c’è anche un approccio un pochino più superficiale, più freddo e, proprio perché alla portata di tutti, è sicuramente meno preciso: meno concentrazione, meno a pensare alle cose. Sicuramente è comunque una cosa positiva perché permette a tante persone di fare musica, di sperimentare, non posso dire il contrario.
Quali i temi frequenti nelle vostre canzoni?
Edoardo: noi parliamo solo di amore, cerchiamo di trovare sottili differenze, ma parliamo solo d’amore perché non credo ci siano argomenti più interessanti di cui parlare.
Remo: L’amore indiscutibilmente, sì, perché in Italia per arrivare alla gente per il 99% delle volte torni sugli anni ‘60, gli anni di Mogol, di Battisti, di Tenco, di Paoli.. Io credo che l’amore sia uno dei temi più importanti che una band possa trattare, di conseguenza abbiamo fatto un disco di quest’intensità. È una cosa che nel mondo di oggi stenta ad esserci, perché nessuno ci pensa quasi più quanto questo mondo stia diventando un melting pot di esistenze, quindi questo è stato il motivo base. Le liriche sono un po’ adolescenziali per questo motivo, perché trattando d’amore negli anni passati era questo il vissuto, ma oggi potrai sentire già canzoni con molto più pathos e romanticismo.
Quali sono le band alle quali vi ispirate, ma anche artisti e autori?
Edoardo: A tutto quello che è stata la musica degli degli anni ‘90, infatti si sente nel disco; c’è una forte influenza di quello che è stato il primo british pop degli anni ‘90, poi ora le cose nuove che stiamo scrivendo sono molto più personali.
Remo: A livello di reazione, prendo in mano la chitarra, parto con quello che è successo nella mia vita privata e da qui scatta la scintilla per esprimermi in maniera più estesa. Se fossi un quadro sarei un Pollock, nei momenti in cui scrivo, se fossi un libro, vorrei essere un Cesare Pavese, in cui c’è questa distanza dell’amore impossibile da vivere. È un paragone troppo grande però.
Edoardo: E poi, soprattutto, le nostre famiglie. Siamo sempre italiani eh? Anche se nella musica possono esserci influenze inglesi, americane, ci piace tornare a casa.
Mentre quale considerate essere il vostro tratto distintivo?
Remo: La nostra musica è molto semplice, in un modo sempre più complicato di sperimentazione noi ci ispiriamo sempre alla canzone, a scrivere la canzone. Quando c’è la struttura, lo scheletro di questo essere allora diamo vita a questa creazione e nasce la nostra musica. I riferimenti sono sempre gli stessi, la musica inglese, anche perché siamo nati ascoltando il brit-pop o ancor prima i Beatles, gli Stones, potrei mettere anche gli Smiths, il new wave anni 80, oppure anche nuove cose che mi piacciono molto come gli XX; comunque prevale l’importanza della canzone rispetto al progetto, perché un gruppo può avere anche una sonorità molto innovativa, particolare, con un nuovo stile, una nuova attitudine, ma se non hai la canzone, scomparirai, quindi puntiamo a questo: a fare delle belle canzoni, che è una cosa molto difficile nel 2012.
Marco: Il nostro tratto distintivo, ti potrei dire che… Quindi il genere che facciamo? Allora noi siamo un gruppo di ragazzi vicino ai 30, che per dieci anni ha suonato insieme, ha passato tante fasi della musica, cambiato anche modi di suonare, cercato di sperimentare, fino a sentirci amalgamati bene solo noi quattro...prima c’erano anche altre persone… Abbiamo deciso di suonare, abbiamo realizzato e pubblicato il nostro primo disco e la nostra musica è una musica molto diretta, direi anche per certi versi semplice ma non superficiale, ascoltabile da tutti, anche per un orecchio non tecnico può sembrare molto diretta, però se si presta attenzione si ritrovano arrangiamenti molto particolari; c’è molto lavoro sugli arrangiamenti, uno stare molto tempo sulle canzoni, che può essere una cosa negativa e positiva, forse un po’ troppo perfezionisti...stiamo lavorando sull’essere più spontanei.
Parlateci un po’ del video del singolo ‘Il profumo è sempre il solito’…
Marco: Sono legato forse in maniera più profonda a Il profumo è sempre il solito, il primo singolo, il primo video, è stata la prima canzone scelta per entrare nel disco, il nostro pezzo di lancio e sicuramente, venuta in maniera spontanea da un’improvvisazione, fatta da tutti. Il video è molto interessante, particolare, realizzato molto bene. Abbiamo lasciato fare al regista, però ci siamo messi subito in sintonia con lui, e alla fine il concetto finale è stato giusto e positivo.
Francesco (basso): La nostra scelta è stata quella di realizzare un video prettamente visivo, che desse un’immagine forte, a prescindere dalla storia, ma proprio una sensazione di un momento preciso tra queste due persone, e quindi la cosa migliore ci è sembrata dilatare questo momento per tutto il video, contrapponendo la velocità della musica con la lentezza delle immagini, con l’attenzione per ogni dettaglio, ogni mossa.
L’intro della canzone ricorda un po’ i Placebo…
Francesco: Sì diciamo che ci hai azzeccato, perché sicuramente fanno parte dei nostri ascolti come moltissimi altri artisti… I Placebo sono stati tra i più ascoltati insieme a molti altri e ci sta tutto sicuramente per il tempo di batteria… Sì, te lo approvo, si!
La distanza è il titolo di un vostro brano, è anche un tema molto trattato in musica, secondo voi perché?
Francesco: Perché la distanza è più trattata? Perché è un argomento che affascina e fa soffrire, come diceva Bruno Lauzi quando gli chiedevano perché faceva canzoni così tristi. Spesso testi rabbiosi o di fondo con tracce di malinconia uniti al fascino di luoghi lontani è una buona base per scrivere un testo.
Remo: L’ho scritta io, parla della distanza in ogni suo aspetto non solo quello dell’amore, quando l’ho scritta pensavo anche alla distanza a livello sociale, e anche proprio l’amore che nel ritornello spicca, però diciamo ci sono anche delle metafore attinenti alla vita di tutti i giorni che ti possono far pensare a qualsiasi altro tipo di argomento non solo quello, e l’ho scritta credo 3-4 anni fa, non ricordo mai esattamente, ci ha fatto arrivare all’Heineken Jamming Festival perché piacque a Mario Risolo e di conseguenza è stata una sorta di trampolino di lancio per quell’annata lì. A livello di sonorità per quanto riguarda le chitarre si rifà agli anni 80 new wave, dai primi Smiths ai Cure, a quel bagaglio culturale musicale della Manchester degli anni d’oro, della factory, di qualsiasi cosa che partiva dall’Inghilterra, quando l’Inghilterra faceva ancora musica spettacolare. Poi il testo è in italiano perché come band ci teniamo a scrivere canzoni in italiano, ci hanno accusato di essere forse a volte un po’ vuoti nelle liriche , ma è anche un atteggiamento nostro riguardo a questo primo disco che si rifà a un nostro modo di essere di molto tempo fa, perché la realizzazione dell’album è avvenuta in una decade, sono dieci canzoni che si rifanno a quando eravamo teenager e quindi hanno queste sonorità un po’ naive, un po’, si può dire, anche vuote; ora siamo diventati grandi e nel secondo disco ci esporremo di più.
La traccia numero 8, “In Viaggio” parla della strada, il viaggio e lo spazio, il video è girato a New York…E’ forse la città che più amate?
Edoardo: Il video è un montaggio tra immagini prese da un amico a New York e la sala prove in cui registriamo. New York è un po’ il sogno, ma siamo anche legati alla nostra casa, alla toscana.
Francesco: La storia del video nata un po’ così: un video fatto tra amici, le parti della sala fatte con dei nostri amici fotografi che fanno anche video e così ci siamo detti “Proviamo a fare qualcosa anche di documentaristico mentre noi suoniamo”, abbiamo fatto le registrazioni, che sono rimaste un po’ lì, senza uno scopo preciso, poi un nostro amico, anche lui cantante e compositore, cui piaceva molto questa canzone, ha fatto un viaggio in solitaria a NY e ha tenuto addirittura un vlog, un video-blog su Youtube, in cui ha infilato questa nostra canzone che lui riteneva proprio ispiratoria anche per questo suo viaggio, e così ci siamo detti “Perché non unire queste due cose e mostrare questo viaggio? Facciamoci ispirare anche noi da lui e creiamo questo montaggio” e vedendolo tutto ci tornava, a prescindere dal significato delle immagini, c’era il senso di quello che volevamo dire. Il viaggio a New York è il viaggio per antonomasia, e quindi abbiamo detto “Ok! Bello, ci piace! Va bene!”.
I vostri sogni e le vostre ambizioni in campo musicale?
Marco: Il mio sogno è quello di continuare a suonare, portare in giro il più possibile la nostra musica, impegnandoci. Viviamo molto alla giornata, il nostro disco piace, piace alla gente.
Remo: Fare un disco a NY sarebbe un bel sogno, riuscire ad arrivare non solo nel nostro paese, arrivare quindi a più persone, a più cuori sarebbe un grande sogno. Riuscire anche ad arrivare ad altre nazionalità sarebbe una cosa fantastica. E riuscire anche a fare un grande tour, perché in video è una cosa, dal vivo è un’altra: c’è l’intensità, suonando on the road.
Edoardo: le nostre ambizioni come musicisti sono quelle di fare quello che ci pare, il principio che deve rimanere una cosa nostra svincolata da qualsiasi meccanismo noioso, palloso, furbone… La musica è cambiata, fortunatamente si può fare anche così al giorno d’oggi, ci si può pubblicare, ci si può far sentire, fare dei concerti che danno soddisfazione, non dover rendere conte ai personaggi "che contano" del settore.
Quindi senza compromessi diciamo…
Edoardo: No, noi vogliamo fare quello che ci pare (ndr. sorride), già la vita ci porta delle regole, se non possiamo fare quello che ci pare della musica è finita!
Nerospinto a spasso per la città alla scoperta di Mister Tea
E’ la bevanda piú diffusa e consumata al mondo, seconda solo all’acqua. Se si considera che l'acqua è una necessità per la vita allora si potrebbe dire che il tè occupa un posto davvero importante tra le migliaia di bevande. Nemmeno la Coca Cola puó superarlo…
Dall’ infusione di una bustina in acqua bollente il gioco del piacere inizia, il gioco di godere di un biscotto, una cupcake, una tazza calda di tè: il tea time che si trasforma in momento irrinunciabile.
Considerato la quintessenza della tradizione inglese deve le sue origini ad Anna, la settima duchessa di Bedford, una giovane donna vissuta agli inizi del 1800 in un tempo in cui era usanza comune consumare solo due pasti principali al giorno, la prima colazione della mattina presto e la cena in tarda serata. Indebolita e irritata dai morsi della fame, decise cosí di abbandonarsi ogni pomeriggio ad una tazza fumante di tè coccolandosi con i suoi aromi avvolgenti, meglio se accompagnati da qualche delizioso snack, dolce o salato che fosse. Questa cerimonia, inizialmente intima e consumata quasi di nascosto nella piú totale tranquillitá della sua camera da letto, diventa successivamente un vero e proprio rendez-vous, una deliziosa e immancabile parentesi delle sue giornate, da condividere con amici che la raggiungevano intorno alle 5 per sorseggiare assieme una tazza di tè. La tazzina di porcellana del periodo Vittoriano, il cucchiaino d'argento, la tovaglia ricamata, il profumo che inebria la mente: la tradizione secolare che continua a riproporsi sino ad oggi grazie alle sempre piú numerose tea rooms, che hanno iniziato a proliferare prima a Londra, poi in tutto il mondo; atmosfere di relax e gusto: il salotto di Anna.
Molti tè sono praticamente indistinguibili, altri racchiudono in una tazza qualcosa di unico nel loro genere, ma ció che li accomuna tutti sono le loro proprietà benefiche e rilassanti, una coccola per il corpo e la mente.
Come assicurarsi una selezione personale di gusto? Per gli acquisti speciali vi consigliamo nel cuore di Brera l'esclusiva boutique Kusmi Tea, dove potrete trovare un'eccellente scelta di tè provenienti dalla Russia o dalla Francia, fragranze aromatizzate con le migliori essenze di Grasse, Calabria o Madagascar. 80 varietà di tè: dalle tipiche miscele russe ai tè classici alla linea benessere Detox. Le confezioni in vendita possono essere adatte anche per dei piccoli cadeaux, in quanto la confezione super esclusiva è un vero e proprio oggetto da collezione, le sue scatole argentate rimandano allo stile dei tempi degli zar. Ogni giorno potrete degustare un tè differente in modo da scoprire e apprezzare le diverse varietà di aromi disponibili.
In piazza XXV Aprile 12 troviamo Damman Frères, la più antica boutique da tè francese, in attività dal 1692. Per chi fosse un neofita del mondo del tè il negozio organizza degustazioni e corsi.
L’arte di offrire il tè di via Macedonio Melloni 35 è un’elegante boutique di tè pregiati che offre oltre 250 varietà di infusioni, tra cui una selezione bio e fair trade per i clienti più sensibili all’eco-sostenibile. Pratico e innovativo il servizio di consegna a domicilio.
Se vi siete appassionati all’articolo e volete approfondire l’argomento vi consigliamo la lettura di:
Tè: guida al tè di tutto il mondo di Jane Pettigrew, Ed. IdeaLibri.
Oro verde, la straordinaria storia del tè di Alan e Iris Macfarlane. Laterza.
Alessandra Sporta Caputi
Pipilotti Rist, una visual artist smarrita nel mondo delle meraviglie carnali. Viaggio itinerante attraverso lo specchio, tra visioni antropomorfiche e impressioni sonore.
Pipilotti, pseudonimo che combina Lotti, soprannome di Charlotte, con Pippi, riferimento al personaggio Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren, nasce come Elisabeth Charlotte Rist nel 1962 a Grabs in Svizzera.
Dal 1982 al 1988 frequenta l’Università di Arti Applicate di Vienna e la Scuola di Design di Basilea. Ancora studentessa produce la sua prima opera, I’m Not the Girl Who Misses Much (1986), video in cui si sposta da una parte all’altra dello schermo, scoprendosi il seno, mentre ripete la frase del titolo estratta dalla canzone dei Beatles "Happiness Is a Warm Gun".
Dopo aver fondato la rock-band tutta al femminile Les Reines Prochaines, gruppo col quale, dal 1988 al 1994, realizza alcuni album, concerti, video e performance dal vivo, ha inizio la sua vera e propria carriera artistica .
Nel 1992 raggiunge la notorietà con Pickelporno (Pimple porno), un lavoro sul corpo femminile e l’eccitazione sessuale, in cui le riprese, cariche di colori intensi, ambigue e sensuali, si spostano lungo i corpi di una coppia. Pipilotti Rits sviluppa un suo linguaggio estetico peculiare che si avvicina a quello dei video musicali: l’artista appare in molti dei suoi video, spesso cantando sulle soundtracks; i suoi lavori durano generalmente solo qualche minuto e contengono alterazioni di colore, velocità e suoni; i temi trattati sono principalmente collegati alla femminilità, alla sessualità e alla fisicità.
Si dedica inoltre alla creazione di installazioni multimediali, come Flying Room(1995) e Himalaya’s Sister’s Living Room (2000), in cui videocamere e monitor proiettano direttamente i filmati sugli spazi delle gallerie, e tra il 2005 e il 2009 si occupa della realizzazione del suo primo cortometraggio intitolato Pepperminta, presentato lo stesso anno al Festival del Cinema di Venezia.
Al contrario di molti artisti concettuali, i suoi lavori sono pervasi di sonorità insolite, carichi di colore, trasmettono un senso di spensieratezza e semplicità, aprono i nostri percorsi emozionali, istintivi, vitali.
Le sue riproduzioni sono affascinanti, sanno trasformare il cemento in pelle e carne, ogni installazione cambia a seconda del luogo in cui viene proiettata, le decorazioni murali prendono vita, le superfici si animano.
Pipilotti Rist gioca con la nostra sensibilità e con i nostri sensi, media per noi una nuova esperienza, che diventa esperienza endogena: esplora i nostri corpi dando forma ai nostri desideri reconditi, alle nostre perversioni, ma anche ai nostri sogni, evocando immagini rubate all’immaginario collettivo, come quelle del giardino dell’Eden e di Adamo ed Eva, ci riporta dentro il grembo materno, ad un panteismo in cui l’unico Dio è donna, una Demetra metafora della natura e del nostro ciclo vitale.
“L'unica cosa autentica che ho sono i sentimenti e i litri di silicone”. Agrado ha avuto un figlio, morto tragicamente in un incidente stradale, ne ha avuto un altro ma da un’altra donna, e non una donna qualunque. Una suora. Una suora che ha avuto un figlio da un uomo che ora per vivere fa divertire gli altri, che litri di silicone hanno trasformato in Agrado, un travestito bellissimo e pieno d’amore. E’ solo una parte, questa, del mondo di passione e colore in cui ci si immerge guardando Tutto su mia madre, premio Oscar come miglior film straniero nel 1999, espressione piena dello stile Almodovar. Il divino Pedro apre in Spagna una nuova era nella storia del cinema, gli anni ’80 condensano nelle sue pellicole le esplosioni artistiche e le contraddizioni di un paese dalla storia forte, intensa, che non potrebbe raccontarsi come succede negli interni borghesi di molto altro cinema europeo. Lo sguardo del regista entra dentro l’anima dei suoi personaggi con sfrontatezza, con violenza persino, alla continua ricerca di un’autenticità da imporre ai suoi spettatori, costretti ad abbassare le difese, incapaci di decifrare scelte stilistiche – si pensi a Parla con lei, all’incursione nel surrealismo che scorre nelle vene almodovariane, come spesso sottolineato dalla critica – legate a una visione del mondo e delle relazioni umane eccessiva e originale. L’eccesso diventa colore, rabbia e amore spinti fino alle estreme conseguenze, in un universo di personaggi mai riconciliati con se stessi e con la vita, perché lo schermo non maschera, non è finzione ma esasperazione di sentimenti selvaggi, dolci e disperati interpretati da attori-feticcio legati al regista quasi da un culto: Antonio Banderas e Penelope Cruz, per citare i nomi legati anche all’orizzonte cinematografico hollywoodiano, ma altri grandi nomi in Spagna come Carmen Maura, Bianca Portillo e Marisa Paredes. Un gruppi di attori che in 30 anni ha lasciato i set di Pedro per poi tornarci come si ritorna al primo amore, che incarna nel corpo, prima ancora che nello spirito, le parabole esistenziali estreme definite dal regista film dopo film. Specchi sporchi di vita, riflessi distorti della realtà. Le amatissime donne di famiglia, la loro forza di generazione in generazione – quella forza che in Volver si scontra con l’orrore, nel surreale spazio di una canzone portata dal vento – i variopinti travestiti alla continua ricerca d’amore in fuga dalla prigione delle apparenze, sembrano delle maschere, ma l’intima unione del regista con i loro volti, con i loro corpi – attraversati da inquadrature di poetica simbiosi – restituisce al pubblico la loro autenticità, anche quando questa significa violenza, disperazione e morte, come succede all’Antonio Banderas de La pelle che abito, apoteosi del male oltre ogni umana comprensione. Almodovar alza i toni per raccontare qualcosa che esiste, confinato nell’abisso della normalità, senza giudicare, senza risolvere con un lieto fine l’estrema ricerca di amore e di verità delle sue creature. con un linguaggio denso di riferimenti alla storia del cinema – il conterraneo Luis Bunuel prima di tutto, ma anche i maestri italiani – che diventano citazioni d’arte, pennellate dal tocco leggero e al tempo stesso abbagliante su una tela affascinante e mai banale, freneticamente animata, col segno netto e inconfondibile del grande Pedro, lui stesso icona dei suoi personaggi, affamato di verità senza compromessi, senza rinunciare a dire e mostrare perfino l’indicibile e l’inguardabile, restituendo al corpo e all’immagine il valore di simulacro perso nelle logiche consumistiche, con la bruciante passione per l’arte in tutte le sue forme.
Il male è il bene. Fino a che punto la cosiddetta morale può essere messa in discussione, tanto da sovrapporre e confondere la bontà con la cattiveria, il delitto con la giustizia?
La domanda sorge spontanea nel momento in cui si diventa spettatori di alcune tra le fiction made in USA più geniali degli ultimi anni.
Sembrano ormai storia vecchia i piccoli mafiosi di periferia (The Soprano’s) che facevano del crimine e delle ruberie la loro routine, inquadrando il male solo da un punto di vista “lavorativo” e prettamente malavitoso. Ora, a calcare le scene del piccolo schermo sono personaggi completamente diversi. Geni del male cattivi in tutti i sensi, uomini in grado di svelare il loro lato oscuro in maniera totale e, finalmente, priva di striature moralistiche.
Ed è dalla mente brillante di sceneggiatori come James Manos o Vince Gilligan che nascono due tra gli antieroi più riusciti e amati di tutti i tempi: Dexter Morgan e Walter White.
Il primo, Dexter, da il titolo all’omonima serie, arrivata oggi alla settima stagione.
Dexter Morgan (Michael C. Hall) è un ematologo in forza alla polizia di Miami. Prende molto seriamente il suo lavoro, è preparato e attento, tanto da capire com’è avvenuto un crimine semplicemente dalla disposizione delle macchie di sangue, dalla loro forma. Ma non è tutto qui. Dexter Morgan è anche un serial killer, ma non è un pazzo maniaco qualunque, è un omicida che segue un “codice”, poiché è un assassino di assassini. Le sue vittime sono le persone più spregevoli, che riescono in un modo o nell’altro a sfuggire alla mano della giustizia, continuando a perpetrare i loro crimini o nascondendosi dietro figure di padri di famiglia.
Ma Dexter non uccide per vendetta o per un’innata sete di giustizia: l’unica motivazione che lo guida è il bisogno, un bisogno senza possibilità di redenzione, che lo spinge a versare sangue fin dalla sua tenera infanzia. Un bisogno certamente pericoloso, ma reso più accettabile e persino controllabile dal padre, un poliziotto. Egli, decise di crescerlo non sopprimendo i suoi istinti, ma incanalandoli all’interno di un codice, facendo sì che la sua sete di sangue non colpisse vittime innocenti. E certo, questa sua doppia vita lo porterà spesso a dover mentire e imbrogliare persone a lui care e vicine (la sorella, anche lei poliziotta, i colleghi, la fidanzata…) Ma il rimorso scivola via nel momento in cui il suo “dark passenger” prende il sopravvento, trascinando anche il pubblico in un buio mentale senza via d’uscita.
Il nostro secondo antieroe, Walter White (Bryan Cranston), protagonista della serie Breaking Bad, sembra inizialmente diverso.
Conduce una vita ordinaria nell’afosa Albuquerque, è il padre di un adolescente disabile e marito di una splendida donna. Mantiene la famiglia con il suo stipendio da professore di chimica e, per racimolare qualche dollaro in più, è impiegato in un autolavaggio. Tutto cambia quando, il giorno del suo cinquantesimo compleanno, scopre di avere un cancro incurabile ai polmoni. Disperato per la precaria situazione economica, sapendo di dover affrontare spese enormi per le sue cure e per una nuova bimba in arrivo, sembra aver perso ogni speranza del futuro. Attraverso suo cognato Hank, che lavora alla DEA, scopre che gli spacciatori di metanfetamine guadagnano un sacco di soldi, se nessuno li scopre, è in quel momento che decide di contattare un suo ex alunno, Jesse, che sa essere nel giro delle droghe, per fare un accordo: Walter, grazie alle sue conoscenze di chimica, cucinerà cristalli mentre Jesse li spaccerà.
Inizierà in questo modo l’evoluzione del personaggio verso i più oscuri abissi dell’animo umano. Inizialmente pervaso da sensi di colpa e spinto a delinquere solo dal bisogno di soldi, pian piano emergerà un uomo completamente diverso, nel quale la sete di potere e la voglia di superare ogni limite si farà largo così naturalmente da portaci a giustificare ogni suo crimine più efferato.
Sarà forse proprio la naturalezza e l’esattezza con cui i due registi ci mostrano la dinamica dei crimini (non sembra poi così spaventoso pugnalare al cuore un uomo e nemmeno cucinare droghe dal potenziale mortale), sarà forse la novità di trovarci a seguire delle vicende umane atipiche o sarà piuttosto un’ innata propensione verso il male, insita in ognuno di noi, che spingono queste serie verso un successo mondiale?
Infatti non si può non provare simpatia per il giovane assassino di assassini, e, sotto sotto, non si può non parteggiare per lui, nonostante si tratti, in fin dei conti, di un serial killer. Così come risulta impossibile non sperare che Walter riesca a farla franca ancora una volta, tifando per il suo cinismo pragmatico.
Perché la vera lezione, tremenda, è che in fondo personaggi come Dexter o Walt White sono le persone che tutti vorremmo essere, il lato oscuro che ci portiamo dentro ma a cui solo loro danno sfogo. Loro incarnano la vera redenzione dal “peccato” degli uomini comuni e la tendenza innata che ci distingue da ogni altro animale: il male può diventare un bene.
C’è un momento in cui l’arte lascia spazio al senso umano dello stupore e della grazia. Un momento in cui l’occhio ignaro dello spettatore/passante riesce a cogliere quel nonsoché di mistico e trascendentale che sembra riportare, anche se per poco, ogni uomo all’origine della sua forma e della sua essenza.
Ed è proprio questo che accade recandosi a visitare la mostra di Alberto Garutti (Galbiate, 1948) al PAC di Milano.
L’esposizione, curata da Paola Nicolin e Hans Ulrich Obrist prende il titolo “Didascalia”, parola molto importante per l’artista perché sottolinea la necessità di un’arte spiegata e da spiegare, dunque non chiusa in una turris eburnea di incomunicabilità e distanza dal suo pubblico.
Il percorso espositivo traccia l’intera evoluzione delle ricerche di Garutti, a partire dagli anni 70 fino ad oggi, che attraverso una fenomenale commistione tra arti visive, conversazione e insegnamento inquadra il lavoro dell’artista in una dimensione narrativa dell’opera d’arte.
Una sorta di racconto partecipe dell’umanità, all’interno del quale tocca temi quali il rapporto tra artista e committenza (nella serie Orizzonti - dipinti a partire dal 1987 su vetro in bianco e nero, in diverse dimensioni, ogni quadro porta il nome del suo committente) o come la riflessione dello spazio e del ruolo dell’artista nella città, basti pensare all’istallazione “Ai Nati Oggi” (realizzato in varie città dal 1998 al 2005) dove l'artista collega alcuni lampioni presenti in aree pubbliche ai reparti di maternità degli ospedali, in modo che la nascita di un bambino coincida con l’intensificarsi della luce che aumenta per poi decrescere lentamente. Facendo questo Garutti inserisce l’arte non solo nei luoghi di “cultura” ma fa diventare arte la vita comune, ridando giustizia e poeticità alle zone d’ombra dell’esistenza.
Si tratta di arte concettuale evocativa, spesso non immediata, che merita un secondo sguardo. Per l’artista l’arte è un luogo eclettico, un’epifania del vero in cui tutti fanno la loro parte, l’artista come il passante.
Una ricerca di luce sul mondo, dunque, per ridare sensibilità e bellezza attraverso l’arte, la forma più antica di rappresentazione dell’uomo, l’unica in grado di rappresentarci sempre e comunque, da un’eterna dimensione del cuore.
Stare seduti nascosti al buio, guardare le immagini che l'obiettivo, intrufolato oltre le porte chiuse, ruba ad attori compiacenti. La posizione dello spettatore ha sempre qualcosa di voyeuristico, se poi si tratta di un film erotico...
Ecco quindi dieci pellicole dal sapore piccante che si sono ritagliate per vari meriti e curiosità un posto nella storia del cinema.
1933, un industriale austriaco cerca di far scomparire tutte le copie del film girato dalla moglie. Il motivo? Per la prima volta un nudo femminile integrale fa bella mostra di sé sul grande schermo. Le grazie sono quelle di Hedy Lamarr, l'opera si chiama Estasi e racconta di una giovane insoddisfatta dal marito anziano, volgare e tutt'altro che focoso. Eva lo lascia per un ritorno alla natura presso la fattoria paterna, dove incontra il suo Adamo con cui si abbandona alla liberazione delle pulsioni in un'atmosfera di sensualità bucolica.
Italia, primissimi anni settanta: scandali e censure. Nel 1972 esce tra forti polemiche Ultimo tango a Parigi: il famoso panetto di burro rappresenta l'apice del rapporto, solo carnale, tra Paul e Jeanne, privo di sentimenti e di nomi, in un appartamento che lascia il mondo fuori. “Esasperato pansessualismo fine a se stesso”, con queste parole il film viene ritirato dalle sale, a dimostrazione di come la censura abbia ben compreso il senso della relazione tra i protagonisti, troppo scomodo e da cancellare.
Il censore è già intervenuto l'anno precedente, ma per motivi diversi, nei confronti di un altro maestro del cinema italiano: Pier Paolo Pasolini, che trasferisce le novelle del Decameron a Napoli, per la prima parte della sua Trilogia della vita. Qui il sesso assume un significato gioioso: mentre fuori infuria la peste nera, le novelle celebrano la vitalità ingenua e innocente dei corpi, che si fa beffa della morte. Libertà eccessiva per l'epoca: pellicola sequestrata.
Un effetto collaterale del Decameron è il proliferare dei “decamerotici”, film di infimo valore ma di grande successo per un pubblico guardone. L'ambientazione medievale offre possibilità narrative, quali avvenenti nobildonne oppresse da cinture di castità, mariti gelosi ed ottusi, stratagemmi contadini e clero di dubbia moralità.
Tra tutti il celebre Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda (1972), il cui livello poetico è interamente contenuto nella rima del titolo. La trama non è altro che una serie di pretesti per far spogliare Edwige Fenech e Karin Schubert, intervallati da gag piuttosto fiacche. Ma resta a suo modo un cult.
Nel 1974 arriva dalla Francia un altro notevole successo di pubblico, in confezione raffinata e patinata, Emmanuelle. L'immagine-manifesto di Sylvia Kristel nuda e svogliata su una sedia di vimini racchiude gli elementi del film: una giovane dagli occhi trasparenti, oziosa e insoddisfatta, che si apre alle emozioni offerte dal connubio erotismo-esotismo. L'attrice resterà poi imprigionata in un'inutile serie di sequel.
1975, Russ Meyer lo definisce “la sintesi di tutti i miei film”, è Supervixens: eccessivo e strabordante come le forme delle sue eroine, una sequela di scene di sesso e violenza tanto ingenue e inverosimili da risultare innocue, nel tipico stile cartoonesco del regista californiano, concluse da un significativo “That's All Folks!”. Pop e pulp.
L'anno successivo, a Cannes, i critici si entusiasmano per Ecco l'impero dei sensi, opera rigorosissima del nipponico Nagisa Oshima, che trae da una storia vera il tragico estraniarsi dal resto del mondo di due amanti in un susseguirsi ossessivo di rituali d'accoppiamento sempre più estremi, nel tentativo di impadronirsi letteralmente dell'altro. La macchina da presa aderisce ai corpi, mentre Thanatos, compagna di Eros, resta in agguato.
Ritroviamo l'eterno binomio Amore-Morte ne La legge del desiderio (1987), pellicola che decreta il successo in Italia dello stile trasgressivo ed eccessivo di Pedro Almodòvar, poi mitigato e maturato nel corso degli anni. Un intreccio di amori omosessuali impossibili ad altissimo tasso di passione, in cui ognuno è trascinato dalla legge che dà titolo al film, a partire dal protagonista Pablo, regista gay, evidente alter ego dell'autore.
Non è certo la sua opera migliore, ma è l'ultima (e Kubrick è sempre Kubrick), Eyes Wide Shut (1999). La coppia Cruise-Kidman viene messa a nudo, la solidità della loro relazione abitudinaria, scossa dall'esplorazione della trasgressione, reale o immaginaria che sia. Il sesso come apparenza, ma anche come turbamento, ritualizzato in una magistrale sequenza orgiastica con corpi privi di passione.
Per chiudere andiamo prima a Hollywood e poi torniamo in Giappone: non un intero film, ma tre sequenze leggendarie. Per la prima basta un accenno della voce di Joe Cocker, “Baby, take off your coat... real slow”, e subito si materializza l'immagine di Kim Basinger maliziosamente seminascosta da una tapparella: lo spogliarello più celebre del cinema, offerto agli occhi di Mickey Rourke. Stiamo parlando, naturalmente, di 9 settimane e ½ (1986).
Per la seconda, visto che lo spettatore è sempre un po' voyeur, ecco gli sguardi bramosi e i respiri sospesi dei detective che ispezionano l'accavallamento di gambe di Sharon Stone: il meglio di Basic Instinct (1992).
L'ultima scena è quella delle pratiche sadomaso di Ai (Miho Nikaido) in Tokyo Decadence (1991). Tratto dal romanzo Topâzu del regista e scrittore Ryu Murakami, la pellicola è un tuffo nei più estremi costumi sessuali nipponici, brutalmente mischiati allo squallore di una megalapoli in disfacimento.
Ho sempre pensato che sia la semplicità a caratterizzare le cose belle. Un progetto semplice funzionerà sicuramente, nella semplicità troviamo la sicurezza di un ottimo contenuto, perchè solo il vuoto ha bisogno di essere riempito. Lasciamoci quindi alle spalle i lustrini, i ricchi premi, le luci colorate e i vestiti sgargianti per parlare di musica. Questo articolo è il primo di una rubrica in cui andremo ad approfondire ogni settimana un artista diverso attraverso gli occhi, e soprattutto le orecchie, di Uabos, dj resident di Le Cannibale, serata del venerdì del Tunnel. Un modo diverso di approcciarsi alla musica, con la guida esperta di uno dei migliori dj di Milano.
Per questo primo appuntamento introduciamo il nostro ospite d'onore: Matteo Pepe, in arte Uabos, nasce a Milano a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, e fin da piccolo capisce che la sua strada sarà dietro a due giradischi e un mixer. Giovanissimo inizia a lavorare per le discoteche milanesi, dai magazzini all'allora gasoline, e nell'arco di pochi anni si ritrova ad aver suonato in praticamente tutti i locali della città. Se lo aveste sentito almeno una volta non vi verrebbe difficile capire il perchè abbia fatto tanta strada in così poco tempo.
Ricordo la prima volta che andai al Tunnel, ormai due anni fa, di venerdì ovviamente, la fama del posto già mi precludeva un giudizio imparziale e fomentato. Entrai nel locale pieno di speranze, a mettere dischi era proprio il nostro amico, in chiusura a Alexander Robotnick, ero arrivato troppo tardi per godermi il superguest, ma non mi importò molto perché il banchetto era comunque più che succulento con Uabos dietro la consolle. Mi conquistò con un remix di Enola Gay e Ny Lipps dei Soulwax, d'altronde il tocco di classe di riuscire a passare i CCCP tra pezzoni elettro-techno con una disinvoltura paurosa non poteva che lasciarmi esterrefatto.
E penso sia proprio la disinvoltura a renderlo un grande dj. Dimenticate i soliti Steve Aoki che saltano, sbracciano, fanno facce strane (e vien da chiedersi dove trovino il tempo per mettere a tempo i dischi) Matteo è serio, professionale, impeccabile. Sembra un chirurgo, chino su un ventre aperto, e con la mano sul fader da un colpo preciso, elegante, fa assaporare la nuova melodia e ritorna rapito alla cassa dritta, quindi non ti accorgi del passaggio in un mashup spontaneo, in un'unica onda sonora che assorbe il pubblico in visibilio.
Da quel giorno se mi chiedessero chi sia il migliore dj di Milano non avrei dubbi sulla risposta.
Conoscendolo, mi ha colpito moltissimo la sua modestia e onestà, pur avendo diviso la consolle con i più grandi nomi della musica elettronica internazionale, da Tiga ad A-trak, passando per The Hacker e Wolfang Flur, non ha mai fatto lo spocchioso o lo snob; un comportamento da apprezzare visto che nell'ambiente di solito si gioca a chi se la tira di più. Ma dietro quella timidezza apparente si nasconde un gigante di cultura musicale e tecnica.
Cercando di sviscerare il suo iter musicale, appare chiaro che le influenze sono molteplici, dalla new wave più cupa in un'evoluzione naturale verso un'elettronica più disinvolta, passando per l'elettrofunk, il big beat, la drum 'n bass e la techno più elementare. Tra i suoi punti di riferimento troviamo Zombie Nation, piuttosto che Dopplereffekt e Legowelt, ma anche Purity Ring e Japanese Telecom, nomi che valgono come garanzia di una ricerca musicale magistrale, affinata in anni e anni di dischi e vinili. Immagino che ficcando il naso nelle sue borse porta cd si possa sentire l'odore di quegli anni a cavallo tra i novanta e i duemila, un misto di fumo, birra, sudore e speranza. Quando i club erano underground non perché faceva figo scriverlo su zero, e ci si andava a ballare per godersi la musica, unica protagonista, e non per farsi vedere con l'ultimo outfit griffato.
Ovviamente Uabos è anche produttore, nasce infatti come polistrumentista prima che dj; il suo primo progetto è il duo Say Dubai, nel quale, insime a Nobel (Francesco Bocchini), evolve il suo stile verso sonorità tropical bass e uk funk, non è un caso che i due vengano notati prima dal tedesco Malente, che pubblica il loro primo ep “Bum” per la sua etichetta No Brainer Rec, e subito dopo pubblichino un remix per Keith & Supabeatz uscito per Southern Fried (etichetta del leggendario Fatboy Slim).
Da quest'anno, i ragazzi di Le Cannibale dopo aver trovato (dicono quasi casualmente) nel computer di Uabos delle produzioni da solista, lo hanno convinto a iniziare un progetto parallelo. Nasce così una nuova esperienza dai toni più melodici, quasi un misto tra triphop e breakbeat, un progetto al naturale, senza guardare in faccia a nessuna moda o tendenza.
-Faccio quello che mi diverte e che mi fa stare bene. - la dichiarazione del Pepe.
Con Need, il singolo uscito sei mesi fa, si apre una nuova stagione musicale che si sposta verso un'elettronica più concettuale, con ritmi meno incalzanti, ma non per questo meno valida, anzi: i tratti minimalisti che evolvono in qualcosa di più complesso tra drum machine, synth leggeri e midi sequencer, aprono le porte a un ep gustosissimo di cui possiamo assaporare la preview su soundcloud.
In attesa dell'uscita del nuovo ep da solista (di cui possiamo anticipare solo i 5 minuti di mix online) e dell'altro con i Say Dubai, previsto per gennaio 2013, possiamo goderci le sue performance ogni venerdì al Tunnel Club e leggere una retrospettiva/articolo/intervista su questo sito.
Vi lascio con il remix per Iori's Eye – Winter Olimpycs.
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