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Curioso, internazionale, pluridisciplinare: è FOG Triennale Milano Performing Arts, il festival di Triennale Teatro dell’Arte dedicato alle espressioni più importanti e innovative nel campo delle arti dal vivo (teatro, danza, musica, performance). Che torna per la sua seconda edizione dal 15 marzo al 5 giugno.

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Il 27 e il 28 marzo, per la prima volta a Milano, FOG Triennale Milano Performing Arts porta sul palco del Teatro dell’Arte l’artista di culto del teatro contemporaneo francese e internazionale Philippe Quesne e il suo spettacolo più famoso e apprezzato: L’Effet de Serge.

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Dal 16 al 21 gennaio, al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano, andrà in scena L’uomo Seme, spettacolo tratto dal racconto di Violette Ailhaud e ideato, diretto e interpretato da Sonia Bergamasco, che torna ancora una volta ad esplorare l’universo femminile.

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Stasera 15 giugno, dalle ore 22:00, alla Triennale di Milano appuntamento con “Viaggio nella nuova notte di Milano” per parlare di notte e architettura.

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Il viaggio artistico di Antonio Marras raccontato, in una mostra delle opere stesse dello stilista, alla Triennale di Milano.

Fondazione Cineteca Italiana presenta Omaggio a Marlene Dietrich presso Spazio Oberdan. Dall’8 al 19 ottobre in Sala Alda Merini saranno proiettate undici pellicole che offrono una panoramica su una delle stelle più luminose dell’arte del ‘900 e della storia del cinema.

Nata in Germania più di cento anni fa, la diva è oggi riconosciuta come la più ambigua delle femmes fatales, una seduttrice libera e disinibita, una donna dotata di un fascino capace di far capitolare indifferentemente uomini e donne. Gli inizi non furono fulminanti. Marlene recitava piccole parti alternando cinema e teatro fino al giorno in cui Joseph von Sternberg la notò e la scritturò in L’angelo azzurro (1930) assegnandole la parte di Lola-Lola, cantante di cabaret che fa impazzire il professor Unrath, ruolo che lanciò in verticale la sua carriera.

Il nazismo però era in agguato e Marlene negli anni '3o decise di fuggire dalla Germania e, seguendo l’esempio di Fritz Lang e altri illustri personaggi del cinema tedesco, si trasferì a Hollywood. Non rientrò mai più nel suo paese natale.

Dieci lungometraggi e un documentario compongono l’omaggio a lei dedicato. Oltre a L’angelo azzurro saranno riproposti altri capolavori di Joseph von Sternberg come Capriccio Spagnolo, delirio perverso e disumanizzato di decadentismo barocco che culmina nella famosa scena del duello, Marocco, grande storia d’amore fra una cantante di cabaret e un legionario e Venere bionda, in cui a quella della Dietrich si affiancano le magistrali interpretazioni di Herbert Marshall e Cary Grant in un intreccio familiare pieno di fraintendimenti. In programma anche due film di Billy Wilder con Marlene protagonista, Scandalo internazionale e Testimone d’accusa.

Completa il programma il documentario Marlene Dietrich – Her Own Song, che si sofferma sull’impegno civile e politico che spinse l’attrice a sospendere la sua carriera, allora all’apice, per dedicarsi agli spettacoli in sostegno delle truppe alleate durante la Seconda guerra mondiale, un aspetto particolare e meno conosciuto della sua vita.

Indira Fassioni

INFO:

tel. 02.87242114

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www.cinetecamilano.it

MODALITÀ D’INGRESSO:

Biglietto d’ingresso intero € 7,00 / ridotto per possessori di Cinetessera o studenti universitari: € 5,50 / Proiezione pomeridiana feriale: intero € 5,50, ridotto € 3,50./ Cinetessera annuale: € 6,00, valida anche per le proiezioni al MIC – Museo Interattivo del Cinema e all’ Area Metropolis 2.0 – Paderno Dugnano.

 

Ultima grande icona dello spettacolo prima dell’avvento della televisione, Edith Giovanna Gassion, meglio nota come Edith Piaf, ebbe una vita breve ma intensa, incarnò con tutto il suo metro e 47 centimetri di altezza le angosce, i turbamenti e le sofferenze di quell’epoca che si snodò dagli anni ’30, passando per la seconda guerra mondiale e concludendosi con la rivoluzione culturale degli anni ’60. Conobbe artisti come Jean Cocteau, Jean Paul Sartre e Marc Chagall, fu adorata da Marlene Dietrich, ma al successo di pubblico corrispose purtroppo una vita costellata da una serie interminabile di eventi tragici e dolorosi che contribuirono a costruire l’aura di mito attorno alla sua minuta figura. Malata di artrite reumatoide iniziò ben presto ad abusare della morfina che, unita alla dipendenza di alcolici, la portò alla prematura morte a soli 48 anni. Chi ebbe il privilegio di conoscerla la descrisse come una donna fiera, forte, coraggiosa oltre ogni limite, sprezzante del pericolo, ironica, sempre pronta a rialzarsi dopo ogni perdita. La sua vera forza fu la sua arte, la sua voce graffiante, profonda e agguerrita, quella voce capace di far tacere le persone nelle strade, la voce che la portò a riempire i teatri più importanti del mondo, a guadagnarsi da vivere ancora bambina. Non rinunciò nemmeno ad esibirsi negli ultimi mesi di vita quando, quasi calva e incapace di reggersi in piedi, svenne durante uno spettacolo a Parigi mentre cantava con la consueta determinazione uno dei suoi inni, “Padam”.

Insomma Edith Piaf è decisamente una eroina da Nerospinto, la amiamo per la sua anima gentile e leggiadra, piena di contraddizioni e turbamenti. La amiamo per il suo accanito attaccamento alla vita, per essersi fatta amare senza mai nascondere nessun lato della sua personalità. Fu diva, ma ogni volta che saliva sul palco provava quella strana sensazione di imbarazzo e reverenza nei confronti del pubblico. Amiamo Edith Piaf perchè non rimpianse nulla, nulla di nulla.

Consigliamo la visione del film Le vie en rose, con Marion Cotillard

E questo video:

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Spesso accade che uno stilista inizi dalla linea di una silhouette per tratteggiare un segno. Un segno che procedendo diventa forma, per poi trasformarsi in abito. All’interno di quei tratti si fondono cromie, pattern e tessuti, sviluppando una collezione di capi. Un guardaroba che rimanda a suggestioni, citazioni, produzioni pittoriche, richiami di un’epoca o tentativi di rottura e dissociazione.

Marcel Rochas fu uno dei pochi stilisti che a metà degli anni ‘20 concepì l’abito con una preventiva ambizione: ridefinire la silhouette, ridisegnare il corpo femminile. Prima del segno, prima della forma, è il corpo a dover essere tratteggiato.

Nei primi due decenni di attività, il presupposto estetico di Rochas trovò espressione nella forzatura dei volumi, volti a modificare o esaltare le linee del corpo femminile. La donna come imbastitura, intorno alla quale il peso dei tessuti e il colore e la trama ne trasformavano la percezione, modificandone la forma.

L’influenza e l’incoraggiamento di artisti come Jean Cocteau, Christian Berard e Paul Poiret, così come il rapido successo conquistato nello star system, consacrarono ben presto Rochas nell’olimpo delle più importanti maison francesi. Mea West, Carole Lombard, Marlene Dietrich sono solo alcune celebrità che contribuirono a portare Rochas alla fama, fornendo anche l’ispirazione per quello che sarebbe stato uno dei più illuminati e pionieristici fenomeni di diversificazione di una griffe: veicolare su un profumo, e in seguito su una sofisticata e complessa linea di cosmetici, l’allure di un brand.

La più diretta manifestazione del lavoro di Rochas sull’anatomia femminile, fu l’invenzione della guêpière nei primi anni ’40. Dal francese “guêpe”, “vespa”, era nata con la funzione di restringere la vita, esasperando il fianco femminile. Da strumento funzionale, correttivo del corpo, negli anni assunse una valenza sempre più squisitamente estetica, in alcuni casi diventando il capo icona di fenomeni stilistici e di diverse divagazioni sul tema.

La breve attività stilistica di Rochas, morto nel 1955 a 53 anni, non si esaurì in questa scoperta: a lui si attribuiscono numerose intuizioni e innovativi sviluppi creativi quali l’introduzione del pantalone di fattura maschile nel guardaroba femminile, le tasche nella camicia, il ricorso a sofisticate fantasie e trame, frutto di contaminazioni artistiche colte. Con la morte prematura del suo fondatore, la maison francese, sotto la presidenza della moglie Hélène, subì una fisiologica dispersione stilistica e non attuò una tempestiva e vincente strategia nel competitivo panorama delle grandi griffe. Nonostante questo, l’azienda riuscì a sopravvivere e a rinverdire l’allure creata dal suo fondatore, attualizzandola nei decenni a venire.

Lo stilista belga Olivier Theyskens, negli anni 90 riportò la griffe sotto i riflettori del sistema moda, grazie anche ad un abito indossato da Madonna per la cerimonia degli Oscar nel 1998 che contribuì a ridare al nome di Marcel Rochas una valenza attuale e contemporanea.

Dal 2008 a oggi Rochas è sotto la guida di Marco Zanini, stilista milanese, la cui formazione vede un passaggio decisivo in Versace e in Dolce&Gabbana. Zanini coglie magistralmente l’opportunità e i limiti di una griffe dal nome altisonante e da una storia dai confini sfumati, dichiarando «Rochas è un nome che risuona da lontano, carico di fascino». Con questo presupposto, i suoi capi evocano grandiosità senza celebrarla o ripercorrerla, senza lasciar trasparire alcuna nostalgia. Le sue collezioni nascono intorno alla sartorialità dell’abito, su volumi precisi e tessuti preziosi. Un linguaggio accennato e raffinato che trova una perfetta sintonia con un’immagine di donna contemporanea: sensibile, complessa, contraddittoria e sofisticata.

I materiali, le fantasie e le cromie sono la tela dei suoi dipinti; quadri che raccontano di donne in movimento senza bustini, a tratti impalpabili e oniriche, che affermano la loro femminilità in un codice solo accennato, mai esasperato, nella consapevolezza che una vita stretta, oggi, è una questione più mentale che relegata a lacci e stecche.

I 10 noir che hanno fatto la storia del cinema

Tre regole per cominciare: è già difficile scegliere solo dieci film, quindi rinunciamo a un ordine di importanza. Il noir è solo e rigorosamente in bianco e nero, perciò nessuna pellicola a colori. Niente Hitchcock, il suo è un cinema a parte.

Cominciamo dal capostipite riconosciuto: Il Mistero del falco (1941) tratto dal romanzo di Dashiel Hammett, esordio del regista John Huston e irruzione nel cinema ‘che conta’ per l'icona del noir, Humphrey Bogart, nei panni del detective Sam Spade alla ricerca di una statuetta d'oro: sigaretta pendente all'angolo della bocca, cappello di traverso, sguardo disilluso. Ci sono già tutti gli ingredienti tipici del genere: inganni continui, violenza sempre in agguato, una galleria di personaggi loschi e inquietanti, un protagonista in bilico tra il Bene e il Male.

Restiamo con “Bogie” nel ruolo di private eye per un'altra scelta obbligata: Il grande sonno (1946), sceneggiato da William Faulkner a partire da un romanzo di Raymond Chandler. Il protagonista è Philip Marlowe, alle prese con un susseguirsi infinito di colpi di scena e stravolgimenti: si narra che anche gli attori, tra cui spicca una stupenda Lauren Bacall, non riuscissero a orientarsi nella trama, ma l'atmosfera del film è quanto di più noir si possa immaginare.

Ritroviamo la coppia (sul set e nella vita) Bogart/Bacall ne La fuga (1947), celebre per una riuscita scelta stilistica del regista Delmer Daves: grazie a un perfetto gioco di ombre e inquadrature in soggettiva, per la prima ora gli spettatori non vedono il volto del protagonista, che dopo l'evasione dal carcere ha fatto ricorso alla chirurga plastica. Tolte le bende, compare il volto magnetico di “Bogie”, braccato dalla polizia e alla ricerca del colpevole dell'uxoricidio di cui è ingiustamente accusato.

Ma il noir è anche il genere dei malviventi alla ricerca del colpo che gli cambierà la vita o che ne segnerà il crollo definitivo, in una spirale di avidità, sfiducia, disillusione, autodistruzione. Di loro racconta meglio di chiunque altro John Huston in Giungla d'asfalto (1950), aiutato da un cast di bravissimi caratteristi poco conosciuti, tra cui una quasi esordiente che farà strada: Marilyn Monroe. Perché nel noir ci sono anche le donne, bellissime e distruttive: le dark lady.

Ne La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder la biondissima Barbara Stanwyck trascina un normalissimo agente d'assicurazioni in un perfido intrigo ai danni del marito: nel noir l'incontro con la dark lady è sempre travolgente, il suo fascino precipita gli uomini più comuni in spirali inarrestabili.

Per continuare con i registi austriaci trapiantati a Hollywood, non possiamo assolutamente tralasciare Fritz Lang, uno dei padri di quell'Espressionismo tedesco da cui il genere ha tratto alcuni dei suoi aspetti peculiari: i netti contrasti di luci e ombre, l'emersione delle passioni più violente, la dimensione onirica. Il film che meglio sintetizza l'equilibrio precario tra realtà ed apparenza, innocenza e colpevolezza, è La donna del ritratto (1944), in cui un criminologo viene coinvolto da una ragazza in una vicenda di omicidio e ricatto.

Il forte simbolismo visivo, tipico dell'Espressionismo, caratterizza anche il capolavoro di uno dei grandi maestri del noir, straordinario creatore di atmosfere inquietanti nel loro bianco e nero che nasconde e rivela: La scala a chiocciola (1945) di Robert Siodmak, in cui un killer minaccia di uccidere una ragazza muta, in un crescendo di suspense.

Restano tre posti in videoteca. Non può mancare Orson Welles: scegliamo L'infernale Quinlan (1958), l'ispettore obeso, razzista, arrogante, dal fiuto infallibile e dai metodi sbagliati. “Era uno sporco poliziotto, ma a suo modo era anche un grand'uomo” dice di lui un'indimenticabile Marlene Dietrich con parrucca nera, come indimenticabili e nere sono le atmosfere quasi opprimenti di quest'opera magistrale.

Non può mancare la scuola francese: tralasciamo le escursioni nel genere dei maestri della Nouvelle Vague e scegliamo Grisbi (1954) di Jacques Becker. Perché c'è Jean Gabin, che sta al noir francese come Bogart a quello americano, con la medesima disillusione. Perché ci sono il miraggio del “colpo della vita” e il codice d'onore dei vecchi malavitosi. Perché c'è la forza dell'amicizia virile messa in pericolo da una donna. Perché l'antagonista ha il volto di Lino Ventura e la femme fatale quello di Jeanne Moreau.

Non può mancare, infine, il “cult B-movie” per eccellenza, cioè il film a basso costo, girato fuori da Hollywood, che nonostante le umili origini è entrato nella storia del cinema: Detour (1945) di Edgar G. Ulmer, storia di un pianista qualunque in viaggio da New York a Los Angeles per incontrare la fidanzata. Il suo viaggio si trasforma in un incubo, a causa di una serie di eventi inattesi e incontrollabili che lo precipiteranno nell'abisso della colpa. Un lungo flashback con la voce narrante del protagonista, classico del genere, ricostruisce le tappe della caduta: pochi soldi, tanto mestiere, indelebilmente noir.

 

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