WeShort, la grande piattaforma del cinema breve, incontra il Teatro Bello di Milano- Il 13, 14 e 15 aprile la "tre giorni" di lancio del progetto
Alla rosa di partnership importanti di WeShort- la piattaforma On-Demand del grande cinema breve- si è aggiunta recentemente quella con il Teatro Bello di Milano, che verrà ufficializzata il 13, 14 e 15 aprile con una tre giorni di lancio del progetto.
Tre gli orari di proiezione giornaliera (15.00; 18.00; 20.00); questi i titoli dei cortometraggi proposti: Magic Alps, Skin, Logorama, EZK: Behind the walls, Everything will be ok.
Everything will be okay, di Patrick Vollrath, non solo è stato presentato alla Settimana della Critica di Cannes, ma ha vinto la medaglia di bronzo agli Student Academy Awards e si è aggiudicato numerosissimi riconoscimenti nei festival di tutto il mondo, per poi essere addirittura nominato per la sezione Live Action Short Films degli Academy Award 2016.
La Library di WeShort annovera attualmente oltre mille cortometraggi in italiano e in lingua originale; si va da produzioni indipendenti di registi giovani e promettenti, fino a premi Oscar, BAFTA, Sundance e Cannes.
Mediante la sinergia con tale piattaforma il Teatro Bello riconferma la sua fascinazione per il mondo del cortometraggio, che risale al 2018, con l’inaugurazione della sala- ristrutturata e digitalizzata- dedicata ai corti; prosegue con la produzione di cortometraggi, l’istituzione di una gara di cortometraggi, “Corto Weekend” e l’organizzazione di rassegne di corti italiani e internazionali, con particolare interesse ai temi sociali, solidali e giovanili.
Il Teatro Bello ha, ad esempio, proiettato i corti del Marano Ragazzi Spot Festival, realizzato dall’Associazione Marano Ragazzi Spot Festival in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale per la Campania e il Consorzio Scuole Città di Marano: opere cinematografiche che hanno promosso negli anni una cultura della legalità responsabile.
Legato al Teatro Bello è anche il progetto “Corti & Legalità”, che ha impiegato il peculiare linguaggio cinematografico del cortometraggio per dare voce a temi di importanza civile e sociale, connessi alla lotta all’illegalità ed alla memoria storica.
Interamente girato presso il Teatro Bello, si segnala, in particolare, “Scena madre”, finito di girare il 21 marzo 2019 e dedicato alla figura di Lea Garofalo. Il cortometraggio di Giulio Guerrieri si è aggiudicato, nel 2021, l’importante premio della giuria al Festival del Teatro Patologico di Roma.
Nerospinto ha incontrato Manuele Consalvi, 27 anni, laureato in Comunicazione Pubblica e d'Impresa e in Corporate Communication. Ha lavorato in qualità di Copywriter per diverse agenzie pubblicitarie fino all'incontro con WeShort, di cui oggi è socio e Content Manager.
Come nasce il suo interesse per l’audiovisivo?
L’interesse per l’audiovisivo nasce da bambino, con i miei cartoni e le videocassette puntualmente consumate, l’amore per il cinema invece arriva durante il liceo ed è una folgorazione. Mi appassiono di Tarantino, Lynch, Scorsese e dei fratelli Coen, guardo film e serie, vado al cinema e, parallelamente, inizio a scoprire il mondo dei cortometraggi. Mi ricordo in particolare di Vincent, diretto da un giovanissimo Tim Burton, piccolo gioiello di animazione in stop-motion che mi ha permesso di entrare in una spirale di corti accomunati da una caratteristica: la capacità di creare mondi, storie e personaggi incredibili, in pochissimi minuti. La passione poi è diventata un lavoro quando ho conosciuto Alessandro e l’ho aiutato a lanciare WeShort, di cui oggi sono Content Manager.
Vuole parlarci delle tappe salienti della sua formazione?
Ho studiato Comunicazione Pubblica e d’Impresa alla Sapienza di Roma, laureandomi nel 2018. Mi sono poi trasferito a Milano per frequentare un corso magistrale in Corporate Communication, concluso nel 2021, e ho iniziato a lavorare poco dopo per uno studio di produzione come copywriter, ruolo che ho ricoperto anche negli anni successivi per un’altra agenzia di comunicazione e per la stessa WeShort, agli inizi della nostra collaborazione. Poi ovviamente c’è stata - e c’è tutt’ora - la formazione cinematografica, all’inizio quasi casuale e inconsapevole, in seguito sempre più strutturata e indirizzata sul prodotto cortometraggio, con tutte le specificità del caso.
In che modo l’audiovisivo italiano può recuperare la sua centralità nel mercato globale, in particolare con riguardo al cortometraggio, troppo spesso bollato come “di nicchia”?
L’Italia ha dimostrato e continua a dimostrare uno stato di salute migliore di quanto spesso si tende a credere. Penso a Garrone e Sorrentino, ormai molto conosciuti e apprezzati in tutto il mondo, ma anche registi come Guadagnino, Sibilia, Rovere, Rohrwacher e la stessa Cortellesi, oltre a tanti altri autori giovani da seguire con interesse. Quello in cui dobbiamo migliorare, secondo me, è il modo di comunicare - e quindi vendere - l’evento film, sia in termini di marketing che sul piano della distribuzione. Un esempio virtuoso in questo senso è sicuramente Netflix, che propone spesso iniziative coinvolgenti e fuori dagli schemi, per regalare allo spettatore un’esperienza ancor prima della visione vera e propria. Mi auguro che questo approccio venga adottato sempre di più anche in Italia, noi dal canto nostro lavoriamo per assicurare una distribuzione al cinema breve, prodotto sempre più popolare e sempre meno “di nicchia”. Basti pensare alla recente edizione dei premi Oscar dove a trionfare è stato il corto di un regista ultra-pop come Wes Anderson, segno evidente che il cinema breve non è appannaggio esclusivo di registi emergenti o alle prime armi, ma inizia a diventare di tutti. L’importante, a medio e lungo termine, è valorizzare i corti come meritano e renderli accessibili al grande pubblico anche attraverso proiezioni speciali e rassegne tematiche, come quella organizzata in collaborazione col Teatro Bello di Milano.
Vuole raccontarci quando e come nasce la piattaforma WeShort?
WeShort nasce da un’idea di Alessandro Loprieno, che tra le poltroncine di un cinema una sera si domanda: “ma perché non mi fanno vedere un corto prima dell’inizio di un film?”. Quell’idea inizia a prendere forma, all’inizio solo nella sua testa, poi tra le persone che lo circondano e finalmente, nel 2021, WeShort diventa realtà. Il team si allarga, il catalogo continua a crescere e ad oggi possiamo contare su oltre 1300 titoli tra cui vincitori di premi internazionali, ma anche collaborazioni con festival da tutto il mondo, partnership con aziende di livello globale e una base utenti in continua espansione. Ovviamente, con la speranza e la convinzione che questo sia solo l’inizio.
Com’è nata la sinergia con il Teatro Bello di Milano?
Si tratta di un accordo che ci onora profondamente, sia per il prestigio del Teatro Bello che per la libertà concessa nella selezione dei titoli da proporre. Corti internazionali, potenti, originali, pensati per divertire ma anche per far riflettere in maniera intelligente su temi sociali di grande attualità. Uno dei nostri obiettivi è proprio quello di portare il cinema breve sul grande schermo e dare vita a esperienze accessibili a chiunque, da vivere insieme e magari scoprire un tipo di fruizione nuova in quel luogo magico che è la sala cinematografica.
La critica statunitense Alissa Wilkinson ha scritto su Vox che nessuno sa più esattamente cosa sia un cortometraggio. Qual è la specificità del corto rispetto a un feature film?
Partiamo dall’aspetto più ovvio: la durata. Un corto dura solitamente tra i 15 e i 20 minuti, in ogni caso difficilmente supera i 40. Va da sé che il minutaggio ridotto consente di comprimere i costi e diventare così il punto di partenza per tanti autori desiderosi di mettersi in mostra con progetti low-budget, spesso molto intimi sia nei contenuti che nella messa in scena. Ma non sarebbe corretto ridurre la definizione di cortometraggio a una mera questione di natura economica. La brevità del corto permette infatti di raccontare grandi storie in poco tempo, condensandole in quelle che personalmente amo definire “emozioni in pillole” in grado anche di inserirsi in momenti della giornata che altrimenti, con ogni probabilità, passeremmo scrollando il feed del social di turno. In tal senso la visione di un corto può diventare un’alternativa di qualità, che ci consente di goderci storie potenti e adatte al nostro stato d’animo in quei pochi minuti che abbiamo a disposizione, di fatto impreziosendo il nostro tempo.
Cosa la colpisce in un pitch?
Innanzitutto la capacità, da parte di chi lo espone, di farmi entrare nel “mondo” che vuole costruire. Una buona idea nel cinema è nulla senza l’abilità di saperla raccontare, e in questo senso il pitch è un momento cruciale che già può fornire qualche indizio importante sulle proprie capacità di storytelling. L’idea però, per quanto valida, non sempre è sufficiente. Uno degli aspetti più importanti in un pitch è anche la consapevolezza di tutti gli aspetti legati alle varie fasi della produzione, tra cui budget, casting, tempistiche, location, stile visivo e così via. Ovviamente le variabili nella realizzazione di un progetto possono essere molte e alcune sfuggono al controllo umano, ma certamente uno studio adeguato di tutti gli aspetti principali riduce il rischio di inconvenienti e alza notevolmente le probabilità di successo legate a un progetto.
“E’ più facile lasciare che una storia continui piuttosto che lucidarla fino a farla brillare”. E’ d’accordo con la giornalista inglese e critica letteraria Kate Kellaway, che ha imputato la lunghezza di alcune storie (in letteratura come nel cinema) ad un sostanziale pigrizia, sottolineando invece l’importanza dell’editing e del “non detto”?
Sì e no. Come sempre, dipende dai singoli casi. Noto però una tendenza da parte di alcuni registi a girare film che superano ampiamente le tre ore in maniera almeno parzialmente ingiustificata. Il motivo di questa scelta può avere origini diverse, ma alla base credo ci sia una generale convinzione a ritenere un prodotto più autoriale all’aumentare del minutaggio, un assioma spendibile anche in fase promozionale. In altri casi i motivi potrebbero effettivamente essere imputati alla “scelta di non scegliere”, ovvero un’incapacità di selezionare ciò che davvero è importante in una storia da ciò che invece può essere sacrificato a beneficio del ritmo e della riuscita complessiva di un’opera. È un tema complesso e spinoso, che coinvolge anche l’emotività e l’affezione di un regista nei confronti delle scene che ha girato. Va però ricordato che la storia del cinema è piena di esempi in cui film che oggi consideriamo capolavori indiscussi sono diventati tali proprio perché “lunghi” e quindi in grado di sviluppare storie, tematiche e personaggi in un arco temporale adeguato. Di nuovo, dipende dai singoli casi.
Secondo lei è stata del tutto sradicata l’idea che il cortometraggio rappresentasse quasi una “prova generale” per chi volesse lavorare nell’industria dei film? O c’è ancora la tendenza ad associare questo formato ai registi alle prime armi?
Non direi che questa idea sia stata del tutto sradicata, ma inizio a notare dei cambiamenti in tal senso. Del resto il cortometraggio è un prodotto sempre più in linea con le abitudini di consumo odierne, in cui la brevità riveste un ruolo fondamentale e permette di “incastrare” l’intrattenimento in qualsiasi momento delle nostre vite. Inoltre, come già accennavo in precedenza, negli ultimi anni l’attenzione mediatica sui cortometraggi è aumentata grazie alla risonanza di autori come Wes Anderson, fresco vincitore di un premio Oscar per La Meravigliosa Storia di Henry Sugar, ma penso anche a Nimic di Yorgos Lanthimos e Strange Way Of Life di Pedro Almodóvar, solo per citare alcuni titoli recenti realizzati da registi già ampiamente affermati. A tutto questo si aggiunge una proliferazione di eventi e festival dedicati al cinema breve, o che comunque lo integrano in maniera importante all’interno dei propri programmi. E poi ci siamo noi, che cerchiamo di portare i cortometraggi nelle vite delle persone, sul piccolo e sul grande schermo, per normalizzare un’esperienza oggi più che mai “a misura d’uomo”.